HAPKIDO
KICK BOXING
JU JUTSU
MUAY THAI
Cos’è l’HAPKIDO?
È un arte marziale coreana apparsa verso la metà del XX secolo e sviluppatasi rapidamente fino a divenire uno stile internazionale.
I suoi fondatori la crearono combinando selettivamente una vasta gamma di tecniche già esistenti con altre di nuova concezione. come risultato, l’Hapkido possiede uno degli arsenali più complessi, particolari e multiformi di metodi di autodifesa tratti da tutte le varie arti marziali e comprende i generi più importanti: colpi, calci, parate, mosse evasive, prese, prese alle articolazioni, prese con soffocamento, proiezioni, cadute con appoggio, capriole, combattimenti a terra, armi, meditazione e terapeutica.
L’Hapkido esalta l’unificazione di corpo, mente e spirito, la perfezione della natura umana, la responsabilità sociale e l’uso appropriato della forza.
L’Hapkido impiega più di 11000 tecniche di base che vengono intuitivamente modificate o combinate per creare migliaia di varianti. Le tecniche di autodifesa sono caratterizzate da un flusso continuo di colpi, parate, prese e proiezioni. I movimenti circolari, costanti e fluidi, sono studiati per armonizzarsi con la forza dell’avversario. Le tattiche spesso alternano metodi estremamente aggressivi con altri difensivi, mentre l’energia viene generata facendo uso di ogni parte del corpo. Lo sviluppo dell’energia interiore è fondamentale per tutto l’allenamento, perché consente di migliorare le proprie condizioni fisiche e di raggiungere una maggiore efficienza nelle tecniche di autodifesa.
Radici dell’Hapkido
L’Hapkido si è sviluppato verso la metà del XX secolo, combinando selettivamente numerose tecniche marziali esistenti con metodi nuovi. Si ritiene che, fondamentalmente, gran parte del suo bagaglio tecnico derivi dal Daito Ryu Aiki Jujustu, un’arte giapponese reinterpretata e integrata con molti concetti filosofici e tecniche marziali di matrice coreana: di conseguenza, per comprendere le radici dell’Hapkido, bisogna esaminare l’evoluzione sia delle arti giapponesi, si di quelle coreane. Tale studio rivela anche i rapporti dell’Hapkido con altre arti marziali del xx secolo, come l’Aikido, il Judo, il Jujutsu, il Taekwondo e gli stili eclettici coreani Kuk Sool Won e Hwa rang Do.
La finalità dell’Hapkido
Lo scopo essenziale dell’Hapkido viene espresso dai significati attribuiti al suo nome. Hapkido è un termine coreano coniato da tre concetti separati, ciascuno espresso da una parola: Hap, Ki e Do. In lingua coreana, Hap è la radice di parole che significano “armonia”, “unione” oppure “coordinamento”. Ki significa “forza vitale universale” o “energia”, mentre Do è “la via”, il “metodo” o il “percorso”. Quindi, l’interpretazione del nome Hapkido simbolizza l’idea di “divenire uno con l’universo” oppure di “armonizzare la mente, il corpo e lo spirito con la natura”. A un livello più letterale, il nome può anche significare “la via della forza armoniosa” oppure “il metodo per armonizzare l’energia”.
Concetti fondamentali
È convinzione fondamentale dell’Hapkido che l’addestramento alle arti marziali sia in primo luogo un mezzo per ottenere la salute fisica, il benessere mentale, la crescita spirituale e la perfezione del carattere. Tutto ciò si consegue attraverso la contemplazione e un rigoroso allenamento fisico, che prepara la mente e il corpo ad affrontare le difficoltà e le sfide della vita. La suprema fiducia nella propria abilità di trascendere la violenza porta a una natura pacifica e solidale. L’acquisizione delle tecniche di combattimento si considera di secondaria importanza e viene sovente ritenuta come un mezzo fisico verso un fine spirituale, le tecniche di combattimento vengono usate unicamente per l’autodifesa o per proteggere altri. Naturalmente, le persone praticano Hapkido anche per molte altre ragioni, ad esempio per migliorare la salute, la forma fisica, la fiducia e la stabilità mentale ed emotiva. Cionondimeno, l’integrazione dell’addestramento alle arti marziali in tutti gli aspetti della propria vita è considerato un obiettivo fondamentale e importante sotto ogni aspetto.
LE TECNICHE DELL’HAPKIDO
L’Hapkido integra tutte le principali aree tecniche delle arti marziali: colpi, calci, movimenti di evasione, bloccaggi, prese, proiezioni, armi, tecniche interne (meditazione, respirazione, sviluppo dell’energia interna) e terapeutica. Nella pratica, le abilità marziali non si considerano come categorie separate (ad esempio prese o proiezioni), ma si combinano in un unico sistema unificato di tecniche progettate per reagire a particolari forme di attacco:
A mani nude
A mani nude contro armi
Con armi contro armi.
Respirazione e meditazione
Rianimazione e terapeutica
Posturec
Movimento
Nell’Hapkido, il movimento si effettua da qualsiasi possibile posizione, ed è caratterizzato dall’esecuzione di passi, scivolate, corse, spostamenti, salti, giravolte, piroette, guizzi, trascinamenti, rotolamenti e cadute.
Punti usati per attaccare
Tecniche- per colpire
L’Hapkido utilizza più di 200 colpi di base, con numerose varianti, che si classificano in:
Colpi con le mani
Colpi con l’avambraccio
Colpi con il gomito
Calci da posizione eretta
Ginocchiate
Calci da terra
Calci in elevazione
Colpi con la testa
Colpi con il corpo
Colpi combinati
È possibile eseguire colpi multipli, in sequenza o simultaneamente (ad esempio, un pugno e un calcio sferrati congiuntamente).
Il numero delle possibili combinazioni è praticamente infinito;
Combinazioni di colpi con il braccio
Combinazioni di calci
Combinazioni miste
Tecniche di evasione e bloccaggio
Le tecniche di bloccaggio prevedono l’uso di mani, braccia, gambe e tronco contro tutti i tipi di colpi.
Tecniche di evasione
Bloccaggi morbidi
Bloccaggi duri
Bloccaggi protettivi
Bloccaggi contro calci
Calci usati per bloccare
Tecniche di presa
Le tecniche di presa sono caratterizzate da attacchi con immobilizzazioni, schiacciamenti, compressioni, torsioni, piegamenti, leve, rotture o strangolamenti che vengono diretti contro articolazioni, muscoli, tendini, legamenti, ossa, nervi, punti di pressione e vasi sanguigni. Le prese si applicano contro un’ampia varietà di bersagli anatomici:
Prese al braccio
Prese alle spalle
Prese alle dita
Prese alle gambe
Prese con soffocamento e alla testa
Compressione dei nervi.
Tecniche di proiezione
Si utilizzano tutte le principali tecniche di proiezione e di atterramento che incorporano diversi movimenti del corpo, come rotolamenti, capriole e salti in elevazione. Le tecniche di proiezione si classificano in:
Cadute con appoggio
Proiezioni dalla spalla
Proiezioni dal fianco
Proiezioni con le gambe
Proiezioni con le mani
Proiezioni di sacrificio
Proiezioni di reazione a un calcio
Tecniche con le armi
Le tecniche con le armi si dividono in due categorie che comprendono tecniche sia offensive che difensive. Nella prima area di studio, le tecniche senza armi combinano colpi, bloccaggi, prese e proiezioni da usare contro attaccanti armati. Nella seconda, le tecniche con le armi vengono integrate con colpi, bloccaggi, prese e proiezioni da usare contro attaccanti armati o disarmati.
I sistemi con le armi studiati nell’Hapkido comprendono:
Coltello
Bastone corto
Bastone lungo
Spada
Corda
Oggetti di uso comune
Difesa contro una pistola.
CATEGORIE DELLE TECNICHE DI DIFESA
Combattimento a mani nude contro avversai disarmati
- Difesa contro i pugni
- Difesa contro i calci
- Difesa contro le prese
- Difesa contro le prese con soffocamento
- Difesa contro le prese alle articolazioni
- Difesa contro le proiezioni
- Difese a terra
- Difesa con un braccio o senza braccia
- Tecniche di attacco
- Difesa contro più avversari
- Protezione di un’altra persona.
Tecniche con le armi
- Tecniche con il coltello
- Tecniche con il bastone corto
- Tecniche con il bastone lungo
- Tecniche con la spada
- Tecniche con la corda
- Oggetti comuni usati come armi
- Difesa contro una pistola.
FOTO federazione Stage Maestri 2009
K I C K B O X I N G
La Kick Boxing o Kickboxing è uno sport da combattimento derivato dall’unione del karate nipponico con il pugilato occidentale, che combina cioè tecniche di calcio caratteristiche di arti marziali orientali ai colpi di pugno propri dello sport occidentale.
La parola kickboxing è stata inventata in Giappone negli anni ’80. In quel periodo le uniche forme di combattimento a contatto erano il full contact karate, la muay thai, il Sambo russo ed il sanda cinese. I promoter giapponesi, vedendo il successo dei match di boxing tailandese, decisero di eliminare i colpi di gomito, ginocchio e le prese. Rimase uno sport da combattimento, ma qui gli atleti usano pugni e calci alle gambe, al tronco ed al viso. Si usano i calzoncini corti come nella boxe e nelle boxe thailandese. Nacque la “kickboxing giapponese“, poi abbreviata in Kick Boxing o parola unica Kickboxing.
Gli americani precedentemente avevano iniziato a fare gare di kung fu e di karate a contatto pieno (full contact), celebri precursori gli atleti ed attori Bruce Lee e Chuck Norris. Unirono quindi le tecniche di pugilato a quelle di karate e kung fu, e nacque il Full Contact Karate. Campioni furono Bill Wallace e Joe Lewis, inseriti nella Hall of Fame delle arti marziali americane. Da qui nacque la confusione dei nomi e degli stili, in quanto usando anche nel Full Contact Karate i pugni e calci, chiamarono anche quella Kick Boxing.
Oggi sono previste quattro specialità: Light contact che prevede uno scambio di colpi ad impatto limitato con l’obiettivo di toccare il più possibile l’avversario. Semi contact che prevede lo scambio veloce di colpi dove vince chi colpisce per primo l’avversario, i combattimenti sono molto simili alle gare di karate, la velocità agevola i colpi d’incontro. Full contact “pieno impatto” i colpi sono portati a fondo e il suo scopo principale è la ricerca del KO, sono obbligatorie le protezioni per testa, e gambe. Low Kick combattimento a pieno impatto che prevede anche i calci bassi al disotto del bacino.
In Giappone venne poi creato un torneo chiamato K-1, in cui K sta per Karate, Kempo e Kick Boxing. In questo torneo le regole sono quelle della kick boxing, ma sono valide anche le ginocchiate ma senza presa. Lo scopo era mettere sullo stesso ring atleti di diverse arti marziali che avessero un regolamento sportivo che permetteva loro di confrontarsi. Viste le borse elevatissime e l’entusiasmo enorme dei giapponesi in questi avvenimenti, il K 1, nome corretto K 1 GRAND PRIX è diventato il più importante torneo al mondo, dove i migliori atleti si confrontano a Tokyo per la finalissima. Il regolamento del torneo è chiamato K-1 Style, ed è a sua volta una forma di kick boxing.
Tecniche di pugno [modifica]
Le tecniche di pugno utilizzate nella kickboxe sono sostanzialmente le stesse del pugilato classico: diretti, ganci, montanti e combinazioni dei tre:
- diretto: colpo sferrato stendendo completamente il braccio in avanti, a colpire il volto o il busto dell’avversario. È un pugno fondamentale, e viene portato sfruttando la torsione della gamba d’appoggio, della schiena e delle spalle
- gancio: pugno sferrato mantendo il braccio piegato, ad uncino, ruotando la spalla
montante: colpo sferrato dal basso verso l’alto, a cercare solitamente il mento dell’avversario, anche se può essere diretto anche al busto o all’addome.
TECNICHE
Tecniche di calcio
Esistono diverse tecniche di calcio nella kickboxing; di queste alcune vengono considerate fondamentali, altre sono varianti o tecniche speciali che possono essere utilizzate in combattimento. Ad ogni modo, le tecniche fondamentali di gamba utilizzate nella kickboxing comprendono il calcio frontale, il calcio laterale ed i calci circolari:
calcio frontale: sferrato portando la gamba al petto e poi stendendola in avanti, per colpire con la pianta del piede, il tallone o, raramente, la punta
calcio laterale: simile al calcio frontale ma sferrato da posizione laterale, ruotando la gamba d’appoggio di 45° e andando a colpire con l’altra utilizzando la pianta o il tallone
calcio circolare o rotante: sferrato muovendo la gamba con una traiettoria -appunto- circolare, colpendo con la tibia o con il collo del piede. Viene realizzato torcendo tutto il corpo, a partire dal piede d’appoggio che, nell’esecuzione, ruota di 45° in avanti nella direzione del movimento. Può essere diretto alle gambe dell’avversario, e si parla in questo caso di calcio basso (low kick), al fianco (calcio medio o middle kick) o, infine, al volto (calcio alto o high kick)
Altre tipologie di calci comprendono, fra gli altri, il calcio incrociato (crescent kick), in cui la gamba compie un movimento laterale ascendente a colpire il volto, il calcio discendente (axe kick), nel quale il movimento è opposto a quello del crescent kick e il piede cade dall’alto verso il basso e lateralmente, usato solitamente per aprire la guardia avversaria, o il calcio ad uncino (hook kick) che consiste nel colpire con una traiettoria di rientro effettuando una rotazione di 360° (di pianta piede o tallone).
In Giappone, terra di pionieri e di “fermento” di stili, si va ad attribuire la nascita della kickboxing e di stili analoghi. Quest’ultimi però mantennero fede al vecchio karategi (kimono), cosa inversa invece accadeva nella kickboxing, che si annunciava un metodo di combattimento efficace e sportivo. Questo nuovo modo di combattere miscelava tecniche di boxe con l’aggiunta dei calci e ginocchiate, praticata su una superficie piana in palestra e presentata al pubblico su ring.
- T. Fujiwara il simbolo della kickboxing giapponese degli anni ’70, che in un certo modo creò anche il look della kickboxing, iniziò la sua pratica ed esemplare carriera sotto la guida del leggendario maestro Kurosaki. La kickboxing dunque era lì pronta per essere “importata”. Nel contempo un noto americano di nome Joe Lewis, al quale oggi si va attribuendo il titolo di più rispettabile pioniere, prima dell’idea del fullcontact, e successivamente, nominato padre della kickboxing americana. Proveniente dal karate, lanciò per primo l’idea di praticare il karate fullcontact con guantoni e K.O. su ring. Ne sperimentò le prime regole in modo da poter unificare sotto un unico tipo di combattimento svariati stili, che allo stesso tempo risultasse valido, senza rovinare l’aspetto tecnico. L’alba lucente del karate full contact americano o american karate free style era iniziata. Ufficialmente nasceva poco prima della metà degli anni settanta e si trovava giusto a mezzo, tra il karate tradizionale e la kickboxing giapponese.
Grazie allo stesso Joe Lewis e al coetaneo Bill “Superfoot” Wallace, le più note riviste catalogavano questo come il nuovo metodo di combattimento, consacrando questi due campioni come protagonisti della nuova era. A conclusione di questo tipo di regolamento sportivo erano necessarie delle protezioni sicure, come guanti e scarpe da combattimento, che dessero garanzia e diversità. Grazie al noto maestro coreano Jhoon Ree fu possibile adottare e migliorare, le protezioni da lui stesso ideate per il suo TKD. Diventarono così equipaggiamento integrante per il karate full contact, permettendone lo sviluppo dell’allenamento e del combattimento. Da lì a poco sulla stessa scia dei due leggendari americani, un altro noto connazionale, Benny “The Jeet” Urquidez, passò senza difficoltà dal karate al full contact, la più pura kickboxing giapponese, portando quest’ultima ai più alti e rispettabili consensi in tutto il mondo, con tanto di rispetto da parte dei giapponesi stessi. Egli così facendo si consacrò a leggenda americana della kickboxing e sono ben note le sue imprese nei ring contro i più svariati campioni.
In conclusione vi sono tre regolamenti sportivi che, in crescente, aumentano l’efficacia delle tecniche e diminuiscono le regole. Oggi grandi tornei come il K-1 ideato da un nipponico” sono la meta dei thaikickboxer. Mentre nel karate fullcontact, il quale nasceva con i kimoni colorati, rimane consacrata l’arte americana, che oggi va sotto il nome di American sport karate free style, anch’essa scuola specializzata che raggiunge i suoi obbiettivi. Il fine dell’american sport karate è la pratica delle forme (kata), di interpretazione libera (per la maggiore sono le musical forms), molto vicine al karate tradizionale quanto al wushu. Per quanto riguarda il combattimento, che va sotto il nome di sport karate point: combattimento con regole a punto stop (semicontact) o combattimento continuato lightcontact e fullcontact.
Semi-contact Il semi contact è la versione di Kick boxing che rimane più vicina agli incontri di Karate. I colpi non possono essere doppiati allo stesso bersaglio, risulta quindi importante il tempismo principalmente, per andare a toccare l’avversario a bersaglio per primi. I colpi non devono essere affondati.
Light-contact Nel light contact il combattimento è continuo, e i colpi non hanno limite di numero, ma si richiede ancora ai combattenti di non affondare troppo i colpi, o si ricevono penalità. Questo sport che già richiede doti fisiche e un certo controllo del round.
Full-contact Versione “dura” della Kick boxing, nel full contact il combattimento è reale come in un incontro di Boxe, e il Ko oltre che consentito è pure cercato. I colpi sono liberi e si cerca la potenza di solito più che grandi finezze. I colpi cercano più di forzare la guardia avversaria che di eluderla.
Low Kick Uno dei punti deboli della Kick boxing, come d’altronde di parecchie altre arti marziali agonistiche, è stato l’ignorare per anni i calci low kick. Insomma i devastanti calci alle gambe, portati in questi anni alla ribalta dalla thai Boxe. E’ nata quindi una versione di Kick Boxing che include come bersaglio le gambe, in genere praticata in calzoncini corti invece che calzoni lunghi.
AI KI JU JUTSU
Il Daitō-Ryū Aikijūjutsu (大東流合気柔術 = Grande Scuola d’Oriente dell’Aikijujutsu) è considerato, in Giappone, come una delle più antiche e nobili scuole di bujutsu. Sarebbe stata fondata nel 1087 da Shinra Saburō Minamoto no Yoshimitsu (新羅 三郎 源 義光, 1045–1127), samurai del clan Minamoto terzo figlio di Yoriyoshi Minamoto discendente della quinta generazione dell’imperatore del Giappone, della dinastia Minaomoto, Fujiwara Seiwa (850–881), e la sua evoluzione si sarebbe svolta in parallelo con la storia del Giappone.
Storia
Il clan Minamoto era uno dei maggiori del Giappone e Yoriyoshi Minamoto, principe militare ereditario (daimyoo) della provincia di Chinjufu era stato inviato dall’imperatore a sedare una rivolta del clan Abe. La guerra durò per 11 anni (1051–1062) sino a quando Sadatou Abe fu sconfitto nella battaglia di Yakata Koromogawa.
Successivamente i figli di Yoriyoshi combatterono nella guerra Gosannen (1083–1087) contro il clan Kiyohara. Minamoto Yoshiie (uno dei figli) era in difficoltà, fu raggiunto dal fratello Yoshimitsu e insieme espugnarono la fortezza di Kanazawa. Yoshimitsu era il signore del castello di Daito (da cui deriva poi il nome dell’arte), ma il figlio Yoshikiyo al termine della guerra si trasferì a Takeda nella provincia di Kai dove assunse il nuovo nome di Yoshikiyo Takeda, dando così origine al Clan Takeda.
Gli insegnamenti marziali sarebbero stati trasmessi in segreto presso il clan Takeda, che le avrebbe tramandate fino ai giorni nostri.
Nel 1674 alcuni documenti segnalano che l’influenza del Nishinkan del clan Takeda si è espansa su tutto il territorio d’Aizu, intorno al quale fioriscono molte scuole marziali principali che insegnano solo ai bushi del clan Aizu. Si contano 5 stili di scherma, 2 di jujutsu (la famosa Mizu no Shinto-ryu e Shinmyo-ryu) proprie del clan Aizu più una miriade di scuole private che insegnano anche ai samurai di minor rango: 22 di scherma, 16 di jujutsu, 16 d’armi da fuoco, 14 d’estrazione della spada, 7 di tiro con l’arco, 4 di lancia e 1 d’alabarda, falcetto con catena, bastone, lotta con l’armatura senza armi.
Per due delle scuole citate vige il divieto di fornire dimostrazioni in pubblico. Sono le due scuole segrete del clan Aizu – l’Oshikiuchi (già Aiki-in-yo-ho, poi Daito-ryu Aikijujutsu) del clan Takeda e il kenjutsu di Misoguchi-ha Itto-ryu del clan Aizu.
Nel periodo Edo (1600–1868) la città d’Aizu-Wakamatsu nel distretto di Aizu era nota per la potenza del castello Tsurugajo, fatto costruire nel 1384 (periodo Ashikaga) da Ashina Naomori (all’epoca daimyoo d’Aizu), e al tempo della rivolta guarnito dalle truppe del clan Aizu , addestrate dal clan Takeda che forniva anche i migliori samurai per la guardia dello shogun. Nel 1868 il nerbo delle forze bene resiste alle forze nemiche, contro cui combattono anche due formazioni di giovani Takeda addestrati nell’Oshikiuchi (il futuro Daito-ryu Aikijujutsu): la squadra Byakkottai (Tigri Bianche) e la squadra Joshigun (l’una maschile e l’altra femminile, entrambe formate da giovani tra i 15 e i 17 anni). Quando le armate Meiji si avvicinano al castello Tsurugajo difeso dal daimyoo d’Aizu Matsudaira Katamori, le due squadre accorrono in suo aiuto. Vedendo la struttura assediata e avvolta dal fumo e, pensando al peggio, essi compiono l’unico atto degno del bushido: il seppuku. Alle porte della città oggi sorge un monumento in memoria dei giovani Takeda suicidi.
La battaglia, benché ormai persa, in realtà continua altre quattro settimane, e il castello, che non era in fiamme come avevano creduto i giovani, è ancora in mano degli Aizu-Takeda. I superstiti, nell’esempio dell’eroismo delle giovani squadre scelgono di continuare a combattere sino alla morte, e come in passato, le famiglie commettono seppuku così che i loro mariti e padri non debbano preoccuparsi di loro in quanto la sconfitta è ormai inevitabile. Quando le armate dell’imperatore entrano nel castello non vi è un sol uomo vivo. In casa del capo-clan Takeda trovano 21 donne e bambini morti suicidi. Terminava così l’egemonia degli shogun. Ma termina anche un’era, quella dei veri samurai.
Inizia infatti il periodo Meiji (1868–1912), la rivoluzione sociale che ne segue stravolge il concetto di caste e nessuno può più portare in pubblico il daisho (le due spade, lunga e corta, simbolo della classe militare dei bushi).
Pochi anni prima era nato un bimbo: Sokaku Takeda (1860–1943) che all’epoca aveva solo otto anni. Il padre, Takeda Soikichi, discendente della stirpe Takeda nel feudo di Aizu, lo aveva nascosto al sicuro, e ben presto il giovane Takeda oltre a studiare l’arte di famiglia, l’Oshikiuchi, inizia il suo musha shugyo (pellegrinaggio d’apprendistato): crescendo con quell’educazione era divenuto, senza volerlo, un ronin, ovvero un bushi senza padrone – il nuovo governo aveva abolito le classi e tutta la struttura sociale dei buke. Studia in tutte le migliori scuole di spada, di lancia e di bastone del paese sino a divenire talmente abile che pur portando in pubblico sino alla morte le due spade simbolo della casta abolita dei samurai, nessuno ebbe mai il coraggio di disarmarlo.
Takeda Sokaku fu molto criticato per il carattere irascibile e scontroso, per i modi altezzosi e arroganti, e per il disprezzo che pubblicamente nutriva nei confronti del nuovo ordine sociale. La sua figura va però misurata nel contesto di un Paese che soffriva d’una profonda rivoluzione, dove i valori radicati da millenni nell’animo dei bushi vennero gettati alle ortiche in pochi anni. Essi vedevano il mondo crollare sotto i loro piedi. Adeguarsi non era facile, soprattutto per le convinzioni morali e i condizionamenti così forti che avevano subito sin dall’infanzia. Alcuni reagirono.
Takeda Sokaku volle rinominare l’arte della scuola e la chiamò “Daito-ryu Aikijujutsu” per richiamarsi ai nomi e luoghi d’origine dell’arte e del suo clan: Il castello di Daito del principe Shinra Saburo Yoshimitsu Minamoto e la particella “Aiki” che derivava dall’antico nome “Aiki-in-yo-ho” dell’arte in epoca Edo.
Takeda Sokaku fu l’uomo che fece uscire l’arte dal riserbo e dal segreto secolare in cui si era tramandata, e la insegnò a moltissimi allievi. Benché analfabeta, teneva corsi e registrava tutto in appositi registri che faceva compilare e firmare direttamente agli allievi (registri conservati presso l’honbu dojo di Abashiri) con minuziosità impressionante, che oggi ci permette di ricostruire molti eventi con un dettaglio incredibile.
Ebbe molti allievi importanti: ministri, ammiragli, generali, magistrati, potenti magnati dell’economia d’inizio secolo, forze di polizia e anche futuri maestri d’arti marziali tra i quali: Matsuda Hosaku, Takuma Hisa, Yoshi Sagawa, Yamamoto Kakuyoshi, Taiso Horikawa, Kodo Horikawa, Yoshita Kotaro, Morihei Ueshiba (fondatore dell’aikido) e, ovviamente suo figlio Takeda Tokimune (1915-1993).
Il 36° Sōke, Takeda Tokimune (1915–1993), decise di far conoscere al mondo le tecniche di difesa proprie di quest’arte marziale solo nel 1990, accettando i primi allievi stranieri e dando così il via alla sua diffusione nel mondo. Tutte le tecniche di Aikijūjutsu praticate all’interno della scuola costituirebbero l’eredità delle tecniche praticate dai bushi del clan Minamoto (1100), poi dal clan Takeda (1500) e per ultimo (fino al 1868) dal Clan Aizu.
Tecniche
Di quasi ogni tecnica esistono le varianti omote, frontale o esterno (表?) e ura, posteriore o interno (裏?), più alcune variazioni a seconda delle leve articolari apportate o delle tecniche di proiezione. In giapponese, 表 significa anche esplicito, e quindi mostrato in pubblico, e 裏 segreto, e quindi non mostrato in pubblico. Le tecniche ura, quindi venivano raramente mostrate in esibizioni pubbliche. La scuola Takumai aggiunge altre tecniche dette “Daito-ryu Aiki Nito-ryu Hiden”. La Takumai si basa anche su video e foto riprese durante degli stage di Tokimune e Ueshiba, un suo allievo che fonderà poi l’Aikido, nel dojo della sede del quotidiano Asai: I documenti sono riuniti in undici manuali detti Sōden.
La successione di Tokimune
Scopo originale della scuola è di trasmettere fedelmente gli insegnamenti ricevuti da Takeda Tokimune, che a sua volte li ricevette da suo padre Takeda Sōkaku, 35° successore della scuola Daitō. Alla morte di Tokimune, tuttavia, vi fu una bagarre tra le correnti: quella autodefinitasi “mainline”, di Katsuyuki Kondo con sede a Tokio, quella di Shigemitsu, formata da studenti che hanno frequentato il dojo di Tokimune per decenni, e quella di Shimpachi Suzuki, altro allievo di Tokimune.
Katsuyuki Kondo sostiene di aver ricevuto il menkyo kaiden (免許皆伝 licenza di successione completa?) di Tokimune, pur essendo uno degli allievi che ha frequentato meno il dojo del maestro, situato in Hokkaido, mentre egli risiede a Tokio. Alcuni hanno sollevato dei dubbi sull’autenticità del documento, sia perché Kondo è un amico di una delle figlie di Tokimune, sia perché non esistono documentazioni fotografiche della consegna del kaiden dal maestro, come invece era usanza per ogni rilascio di licenze inferiori.
L’Aikijujuts può essere descritto come la tecnica jutsu della coscienza, dello spirito e della morte KI, coordinata, armonizzata, raccolta o contenuta AI; in tempi antichi era tenuta segreta e rivelata solo a pochi discepoli per lo più nobili di antico lignaggio.
Il termine AIKI indica il principio di sfruttamento del corpo come arma di combattimento, un modo per eseguire una tecnica con successo contro un avversario.
L’idea centrale di AIKI era di usare la potenza coordinata del KI (energia intrinseca o interiore) in armonia con le esigenze e le circostanze del combattimento in pratica con la strategia dell’avversario e le sue armi, la sua personalità ecc… era quindi possibile controllare l’avversario e lo scontro realizzando così lo scopo primario del combattimento: soggiogare l’avversario.
JU JUTSU
Il jūjutsu (柔術) è un’arte marziale giapponese il cui nome deriva da jū (“flessibile”, “cedevole”, “morbido”) e jutsu (“arte”, “tecnica”, “pratica”). Veniva talvolta chiamato anche taijutsu (arti del corpo) oppure yawara (sinonimo di jū). Il jūjutsu era praticato dai bushi (guerrieri), che se ne servivano per giungere all’annientamento fisico dei propri avversari, provocandone anche la morte, a mani nude o con armi.
Il jūjutsu è un’arte di difesa personale che basa i suoi principi sulle radici del nome originale giapponese: Hey yo shin kore do, ovvero “Il morbido vince il duro”. In molte arti marziali, oltre all’equilibrio del corpo, conta molto anche la forza di cui si dispone. Nel jujitsu, invece, la forza della quale si necessita proviene proprio dall’avversario. Più si cerca di colpire forte, maggiore sarà la forza che si ritorcerà contro. Il principio, quindi, sta nell’applicare una determinata tecnica proprio nell’ultimo istante dell’attacco subito, con morbidezza e cedevolezza, in modo che l’avversario non si accorga di una difesa e trovi, davanti a sé, il vuoto.
Il jujutsu è un’antica forma di combattimento di origine giapponese di cui si hanno notizie certe solamente a partire dal XVI secolo quando la scuola Takenouchi (竹内流) produsse una codificazione dei propri metodi di combattimento. Ma certo l’origine del jujutsu è molto più antica e la definizione, durante tutto il periodo feudale fino all’editto imperiale del 1876 che proibì il porto delle spade decretando così la scomparsa dei samurai, si attribuiva alle forme di combattimento a mani nude o con armi (armi tradizionali, cioè spada, lancia, bastone, etc.) contro un avversario armato o meno, praticate in una moltitudine di scuole dette Ryū, ognuna con la propria specialità. Bastone, Sai e Nunchaku diventano armi, ma nascendo da semplici attrezzi da lavoro. Il bastone infatti serviva a caricare i secchi, i Sai servivano per la brace, mentre il Nunchaku era un semplice strumento usato per battere il riso. Le armi erano inaccessibili ai civili, e quest’ultimi adattarono nell’uso i pochi strumenti che avevano a disposizione, usandoli appunto per difendersi.
Si distinguevano perciò le scuole dedite all’uso del tachi, la spada tradizionale giapponese, quelle maggiormente orientate alla lotta corpo a corpo, fino alle scuole di nuoto con l’armatura, tiro con l’arco ed equitazione. Quest’ultime costituivano la base dell’addestramento del samurai, espressa dal motto Kyuba No Michi, la via (michi) dell’arco (kyu) e del cavallo (ba), che più tardi muterà nome in bushido. Una caratteristica che accomunava tutte queste scuole era l’assoluta segretezza dei propri metodi e la continua rivalità reciproca, poiché ognuna professava la propria superiorità nei confronti delle altre.
In un paese come il Giappone, la cui storia fu un susseguirsi di continue guerre tra feudatari, il ruolo del guerriero rivestì una particolare importanza nella cultura popolare, e con esso il jūjutsu. La difesa del territorio, la disputa di una contesa, la protezione offerta dal più forte al più debole sono solo alcuni dei fattori che ne hanno permesso lo sviluppo tecnico, dettato dalla necessità di sopravvivenza.
Con l’instaurarsi dello shogunato Tokugawa (1603–1867), il Giappone conobbe un periodo di relativa pace: fu questo il momento di massimo sviluppo del jūjutsu, poiché, privi della necessità di combattere e quindi di mantenere la segretezza, fu possibile per i vari Ryū organizzarsi e classificare i propri metodi. Anche la gente comune comincia a interessarsi e a praticare il jūjutsu poiché la pratica portava un arricchimento interiore dell’individuo, data la relazione intercorrente con i riti di meditazione propri del buddismo zen. Ma la cultura guerriera era talmente radicata nella vita dei Giapponesi da spingere i samurai a combattere anche quando non ve n’era l’effettiva necessita. Ciò portava a volte all’organizzazione di vere e proprie sfide chiamate Dōjō Arashi (tempesta sul dōjō), in cui i migliori guerrieri si confrontavano in modo spesso cruento.
La caduta dell’ultimo shōgun e il conseguente restauro del potere imperiale causarono grandi sconvolgimenti nella vita del popolo: i giapponesi, che fino a quel momento avevano vissuto in completo isolamento dal resto del mondo, ora si volgevano avidamente verso la cultura occidentale che li stava “invadendo”. Ciò provocò un rigetto da parte del popolo per tutto ciò che apparteneva al passato ivi compreso il jūjutsu. La diffusione delle armi da fuoco fece il resto: il declino del jūjutsu era in atto.
Il nuovo corso vide la scomparsa della classe sociale dei samurai, che avevano dominato il Giappone per quasi mille anni e il jujitsu da nobile che era scomparve insieme ad essi; i numerosi dōjō allora esistenti furono costretti a chiudere per mancanza di allievi ed i pochi rimasti erano frequentati da gente dedita a combattere per denaro, persone rozze e spesso coinvolte in crimini. Questo aspetto in particolare influenzò negativamente il giudizio del popolo nei confronti del jūjutsu poiché vedeva in esso uno strumento di sopraffazione e violenza.
Durante il periodo storico chiamato Restaurazione Meiji, si affermò grandemente in giappone il nuovo jujutsu ideato da Jigoro Kano con il nome di Jūdō kodokan, che si proponeva come metodo educativo, insegnato nelle scuole come educazione fisica ed inserito nei programmi di addestramento della polizia giapponese. Si deve infatti ricordare come durante l’era Meiji, il Giappone formò forze armate statali al servizio dell’Imperatore basate sul modello occidentale, ma con caratteristiche autoctone. Nel secondo dopoguerra però, a causa della proibizione generale del generale MacArthur rispetto alla pratica delle arti marziali tradizionali prima, e poi dell’evoluzione sportiva subita dal Jūdō quando poté essere di nuovo praticato (a partire dal 1950), si riaffermò il Jujutsu come tecnica di difesa personale, accanto all’Aikido di Morihei Ueshiba.
Il jūjutsu si diffuse nel resto del mondo grazie a quanti, viaggiando per il Giappone (principalmente commercianti e militari) a partire dall’era Meiji, lo appresero reimportandolo nel paese d’origine.
Oggi è praticato in numerosi paesi del mondo.
La leggenda del salice
Esisteva un tempo, molti secoli fa, un medico di nome Shirobei Akiyama. Egli aveva studiato le tecniche di combattimento del suo tempo, comprese altre tecniche che imparò durante i suoi viaggi in Cina compiuti per studiare la medicina tradizionale e i metodi di rianimazione, senza però ottenere il risultato sperato. Contrariato dal suo insuccesso, per cento giorni si ritirò in meditazione nel tempio di Daifazu a pregare il dio Tayunin affinché potesse migliorare.
Accadde che un giorno, durante un’ abbondante nevicata, osservò che il peso della neve aveva spezzato i rami degli alberi più robusti che erano così rimasti spogli. Lo sguardo gli si posò allora su un albero che era rimasto intatto: era un salice, dai rami flessibili. Ogni volta che la neve minacciava di spezzarli, questi si flettevano lasciandola cadere riprendendo subito la primitiva posizione.
Questo fatto impressionò molto il bravo medico, che intuendo l’ importanza del principio della non resistenza lo applicò alle tecniche che stava studiando dando così origine ad uno delle Scuola più antiche di JuJutsu tradizionale, la Scuola Hontai Yoshin Ryu (scuola dello spirito del salice),tutt’ora esistente e che da 400 anni si tramanda tecniche di combattimento a mani nude e con armi in maniera quasi del tutto invariata.
Gino Bianchi ed il jūjutsu in italia
La prima fugace apparizione del jūjutsu in Italia si deve a Pizzarola e Moscardelli, marinai della Regia Marina, che nel 1908 ne diedero una dimostrazione al Re; si devono tuttavia aspettare quasi quarant’anni ed un altro marinaio, Gino Bianchi, perché il jūjutsu attechisca in Italia.
Il Maestro Bianchi, già campione militare di Savate, era impegnato durante la Seconda Guerra Mondiale col contingente italiano nella colonia giapponese di Tien Sing in Cina dove venne a contatto col jūjutsu e, rimanendone colpito per l’efficacia, decise di diffonderlo una volta tornato in Italia.
L’opera di diffusione iniziò a Genova, nella palestra di via Ogerio Pane, dove il Maestro Bianchi insegnava gratuitamente a cinque o sei allievi nel difficile clima di ristrettezze del secondo dopoguerra; con la fine degli anni quaranta la palestra si trasferì nella sede storica di Salita Famagosta e l’opera di diffusione del jūjutsu “stile Bianchi” procedette a pieno ritmo anche grazie alle varie dimostrazioni pubbliche svolte col gruppo dei Kaze Hito (uomini vento). Dopo la scomparsa del Maestro, il “metodo Bianchi” è stato razionalizzato dal M° Angelo Briano che, con il supporto dei maestri Cobutto, Comotto e Mazzaferro, nel 1974 organizzò le tecniche praticate in 5 gruppi di 20 tecniche. I 5 gruppi presero i nomi delle prime cinque lettere dell’alfabeto e vennero chiamati settori. Il settore A raggruppa tecniche che provocano sbilanciamento dell’avversario (atterramento) e un eventuale controllo al suolo. Il settore B raggruppa tecniche dove è predominante la proiezione dell’avversario. Il settore C raggruppa tecniche mirano allo studio degli effetti di compressione e torsione articolare (cosiddette leve articolari). Il settore D raggruppa tecniche che mirano alla resa o allo sbilanciamento dell’avversario agendo sul suo collo (strangolamenti e torsioni). Il settore E raggruppa tecniche che sono la somma e il sunto dei precedenti gruppi.
Il Maestro Bianchi scompariva nel 1964.
LO SVILUPPO IN ITALIA DEL JU JITSU
Il Ju Jutsu si diffuse nel periodo tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento soprattutto lontano dal Giappone grazie alla rivalità con il Judo Kodokan.
I maestri delle scuole di Ju Jutsu infatti, costretti a subire la crescente popolarità di questa scuola, trovarono nuovi stimoli e un fertile terreno d’insegnamento all’estero, grazie anche alla vittoria giapponese sulla Russia (1904-1905) che accrebbe l’ammirazione per questo popolo che, uscito da un interminabile medioevo feudale solo nella seconda metà dell’Ottocento, in pochi anni aveva saputo conquistarsi un posto di primo piano tra le grandi potenze, e tanto fu l’interesse per questo sistema di lotta che fu incluso nel programma delle Olimpiadi di Saint Louis del 1904.
Domata la rivolta dei Boxer (1900) l’Italia aveva ottenuto una concessione in Cina a Tientsin, in cui vi era la caserma Carlotto, potendo così allargare i propri interessi in Estremo Oriente e, grazie ai contatti stabiliti al tempo della Rivolta con i giapponesi, venne favorita la diffusione delle tecniche anche tra i nostri soldati, incuriositi ed affascinati dal modo particolare di combattere all’arma bianca o a mani nude, dei soldati del Mikado, che erano senza dubbio i migliori mai visti.
Tra il Dicembre 1905 ed il Marzo 1906 si disputò il Trofeo Florio di Lotta, che ebbe luogo a Palermo, Napoli e Roma e in tutte e tre le città il pubblico poté assistere, per la prima volta, anche a sfide di Jiu Jitsu, come venne tradotto all’epoca; nell’Aprile 1906 tre maestri giapponesi di passaggio a Roma si esibirono ed uno di loro, Ysmano, si trattenne per qualche tempo impartendo delle lezioni.
Gli entusiastici commenti convinsero il Ministro della Marina Carlo Mirabello ad organizzare un corso sperimentale sull’incrociatore Marco Polo, che stazionava nelle acque della Cina, pertanto assegnò al Capitano di Vascello Carlo Maria Novellis il comando della nave e lo incaricò di assumere un istruttore di Jiu Jitsu.
Questi, dopo molte ricerche, trovò a Shanghai un insegnante, Matsuma – Cintura Nera I Dan, proveniente dalla Marina Militare, che godeva della fiducia del Console giapponese e il 24 Luglio 1906 venne stipulato un contratto di quattro mesi per un corso che si sarebbe tenuto a bordo, al termine del quale gli allievi migliori avrebbero sostenuto gli esami direttamente alla palestra Kodokan.
Nell’Ottobre dello stesso anno i nostri marinai si sottoposero agli esami ma il risultato fu negativo per colpa del maestro che, come commentarono al Kodokan, pur essendo abbastanza abile non poteva insegnare ai suoi allievi più di quanto sapesse.
La prima esperienza italiana di insegnamento di lotta giapponese si risolse dunque con una beffa e per evitare altre spiacevoli sorprese Novellis pensò allora di richiedere un insegnante proprio al Kodokan, ma il Ministro non diede il suo assenso.
Il 31 Dicembre 1906 giunse a Shanghai l’incrociatore Vesuvio e il comando delle operazioni fu ceduto al Capitano di Vascello Barone Eugenio Bollati di Saint Piene che fece imbarcare, dal Marco Polo, due marinai ormai abili nella lotta giapponese: uno di loro, il timoniere brindisino Luigi Moscardelli, nell’Aprile 1907 ottenne a Tokyo il «Diploma di Abilitazione all’Insegnamento».
Le lezioni di lotta giapponese furono dunque impartite da un nostro marinaio che aveva però soltanto pochi mesi di esperienza acquisita con un mediocre insegnante e attingendo solo saltuariamente alle fonti, pertanto finimmo per confondere il Jiu Jitsu con il Judo, praticando una disciplina autarchica inserendovi spesso elementi estranei di lotta.
Nel Settembre del 1907 a bordo del Vesuvio si disputarono le gare semestrali imposte dal Ministro della Marina per mantenere in allenamento gli equipaggi e la competizione di lotta giapponese Jiu–Jitsu Judo, come venne chiamata, fu vinta dal Sottocapo Cannoniere Raffaele Piazzolla sul diciannovenne Cannoniere Scelto Carlo Oletti.
Il 30 Maggio 1908 a Roma, a Villa Corsini, si svolse la prima dimostrazione di Jiu-Jitsu Judo fatta in Italia da italiani, i sottoufficiali Emanuele Vegliante e Giuseppe Guzzardi, e pochi giorni dopo Vittorio Emanuele III volle che l’esibizione fosse ripetuta nei giardini del Quirinale.
Nel Giugno 1909 si svolse a Roma una nuova dimostrazione in cui, presentati dal 2°Capo Torpediniere Emanuele Vegliante, si esibirono il Capo Timoniere Giuseppe Guzzardi e il Capo Cannoniere Romolo Scarinei, ma la manifestazione questa volta ebbe minore risonanza e nonostante l’ottimo esordio il cammino del Jiu-Jitsu Judo divenne lento e difficile.
Poi, complice anche la guerra, per molti anni sulla lotta giapponese calò il silenzio anche per colpa del totale disinteresse che mostrò la Federazione Atletica Italiana (FAI) che allora si occupava di lotta Greco-Romana, Pugilato e Sollevamento Pesi ma non volle sentir parlare di Lotta Libera e Ju Jitsu.
Il conflitto fece però comprendere non solo la necessità di diffondere l’educazione fisica ma anche l’utilità di disporre di reparti speciali esperti anche nel combattimento corpo a corpo e il lavoro compiuto non fu quindi inutile; infatti i militari che avevano appreso la lotta giapponese vennero utilizzati per addestrare i Caimani del Piave e gli Arditi, come il Capitano Giovanni Racchi, autore di testi di ginnastica, che aveva elaborato alcune tecniche di Ju Jitsu che si adattavano alle operazioni militari.
Nel primo dopoguerra vi fu un riavvicinamento di Italia e Giappone e si ridestò l’interesse per l’impero del Sol Levante, per i suoi costumi e per le sue tecniche di combattimento.
Sul finire del 1921 il Capo Cannoniere di 1ªClasse Carlo Oletti fu chiamato a dirigere i corsi di lotta giapponese alla Scuola Centrale Militare di Educazione Fisica (SCMEF) a Roma e successivamente in diverse palestra della capitale al punte che, vista la diffusione della disciplina, il 30 Marzo 1924 i delegati di 28 società e gruppi sportivi civili e militari si riunirono per fondare la Federazione Ju-Jitsu Judo Italiana (FJJI) che nel primo articolo del Regolamento Tecnico Federale riconosceva «quale metodo ufficiale di Jiu Jitsu, sia per l’insegnamento che per la pratica, il metodo Kano».
Nonostante gli sforzi di pochi appassionati, il Jiu Jitsu-Judo però si faceva largo assai lentamente tra il grande pubblico e a nulla servì, nel 1927, la trasformazione della FJJI in Federazione Italiana Lotta Giapponese (FILG) e l’organizzazione, nel Luglio del 1928, di una grande riunione di propaganda alla presenza del M°Jigoro Kano.
Purtroppo il trasferimento di Oletti a La Spezia nel 1930 raffreddò gli entusiasmi nati sull’onda del successo e della pubblicità ottenuta dopo la manifestazione che avevano portato allo svolgimento dei primi esami per l’attribuzione della qualifica di Maestro e nel Febbraio 1931 la FILG venne sciolta e la sua attività inquadrata nella Federazione Atletica Italiana (FAI) provocando l’inesorabile declino della lotta giapponese con un ulteriore cambiamento importante: nel Regolamento approvato dal CONI nel Gennaio 1933 per la lotta giapponese il termine Jiu Jitsu-Judo era stato sostituito da Judo.
La lotta giapponese cadde nel dimenticatoio e se ne riparlò solo nel 1942 quando ebbe inizio alla Scuola di Polizia di Caserta il 1°Corso Allenatori di Lotta Giapponese, diretto dal Prof. Francesco Cao che aveva abitato in Giappone ottenendovi la Cintura Nera, ma i sui appunti non parlavano però più di Jiu Jitsu ma di Judo e indubbiamente nell’opuscolo si riscontrava una conoscenza dello stile Kodokan nell’uso dei termini appropriati.
Se ne sarebbe riparlato grazie a Biagio “Gino” Bianchi, era nato a Genova il 14 Giugno 1914, che durante il periodo di leva in Marina era stato inviato in Cina presso la caserma Carlotto dove, essendo campione militare di Savate, partecipò ai corsi di lotta giapponese.
Nel 1946, congedato dalla Marina iniziò ad insegnare il Ju Jitsu, errando la terminologia che poi entrò nell’uso comune, e nel 1950 si stabilì nella palestra di Salita Famagosta 1r, e nel 1952, viene fondata l’Organizzazione Ligure Divulgazione del Ju Jitsu (OLDJ), con lo scopo di coordinare la pratica e la diffusione della disciplina.
Il 30 Marzo 1960, sotto la sua direzione, si tenne a Genova Bolzaneto il 1°Congresso Nazionale del Ju Jitsu che ebbe il merito di gettare le basi per il suo futuro sviluppo; in quel periodo era particolarmente vivo il contrasto e l’attrito tra i praticanti del Judo e quelli del Ju Jitsu per cui il Congresso ebbe come obiettivo principale quello di esaminare e rimuoverne le cause e di codificare un programma tecnico che potesse favorire lo scambio di esperienze.
Da qui nacque la Federazione Autonoma Ju Jitsu (FAJJ), formata inizialmente da cinque palestre aventi la stessa unità di intenti e di metodo con un programma tecnico e didattico comune, che coordinò l’attività nonostante il vuoto seguito alla morte improvvisa del M°Bianchi, avvenuta sui gradini della chiesa del Carmine per un attacco di cuore il 12 Febbraio 1964 mentre si recava al lavoro.
Nel 1966 la Federazione assunse la denominazione di Federazione Nazionale Ju Jitsu (FNJJ) ed organizzò il 2°Congresso Nazionale del Ju Jitsu.
Nel 1973 l’Assemblea Federale della Federazione Italiana Karate (FIK), approvando l’operato del Consiglio di Settore che aveva promosso l’iniziativa due anni prima, avvallò l’inquadramento del Ju Jitsu nel suo ambito nel «3°Settore» insieme ad Aikido e Kendo.
Nel 1977 il M°Rinaldo Orlandi si fece promotore affinché l’attività fosse coordinata sulla base di scambi tra Germania, Italia e Svezia e riuscì a fondare l’European Ju Jitsu Federation (EJJF)alla cui presidenza fu eletto, carica poi confermata nel 1978 dalla Assemblea Costituente.
Nel 1979 il Ju Jitsu fu inquadrato nella Federazione Italiana Karate Tae Kwon Do e Discipline Associate (FIKTEDA) nel «Settore C», unitamente all’Aikido e al Kung Fu, la cui attività e divulgazione veniva coordinata sotto l’egida del CONI attraverso la Federazione Italiana Lotta Pesi e Judo (FILPJ).
Nel 1986 a causa di problemi interni, che portarono poi allo scioglimento della FIKTEDA, il Settore fu chiuso ed il Ju Jitsu fu invitato ad entrare in FILPJ come sport amatoriale, perdendo quindi la possibilità di continuare a svolgere l’attività agonistica ormai svolta a livello internazionale, per cui si diede una sua struttura assumendo, nel 1989, la denominazione di Associazione Italiana Ju Jitsu & Discipline Associate (AIJJ & da) ed aderendo direttamente alla EJJF.
Nel 1987, sulla base del notevole interesse manifestato da diversi Paesi extraeuropei circa l’attività svolta dalla EJJF, si fondò l’International Ju Jitsu Federation (IJJF) della quale venne nominato Presidente il M°Orlandi, che ne era stato il promotore.
Nel 1988 entra a far parte della AIJJ il Centro Studi e Ricerche Ju Jitsu Italia, fondato nel 1974 dal M°Silvano “Piero” Rovigatti, che porta all’interno dell’Associazione nuove conoscenze tecniche, con l’entrata dello stile GoJu, e nuova forza organizzativa che ha il suo punto massimo con i Campionati Mondiali IJJF che si sono tenuti dal 25 al 27 novembre 1994 a Pieve di Cento, in provincia di Bologna, anno nel quale aderisce all’AIJJ anche il DAMUN – Disciplina di Autodifesa Moderna Unicamente Napoletana – sistema marziale di difesa personale creato nel 1998 dai fratelli Alfredo e Francesco Pellecchia.
Il 28 Ottobre 1993 infine la IJJF venne inquadrata come membro provvisorio nell’ambito della General Association of International Sport Federations (GAIFS) e nel 1994 nell’International World Games Association (IWGA), promuovendo e riconoscendo in tal modo il Ju Jitsu quale sport mondiale.
Nel 1998 per essere accettata come membro ufficiale del GAISF – il 17 ottobre – il nome è stato cambiato in Ju Jitsu International Federation (JJIF) rappresentata in Italia dalla AIJJ.
Il 15 e 16 Agosto 1997 il Ju Jitsu partecipa per la prima volta alle World Games che si svolgono a Lathi in Finlandia, l’Italia è rappresentata dalla Associazione Italiana Ju Jitsu.
Il 19 e 20 Agosto 2001 le World Games vengono svolte a ad Akita in Giappone ed il Ju Itsu Italiano è presente con l’AIJJ:
Il 17 e 18 Novembre 2001 l’AIJJ organizza per conto della Federazione Internazionale la 15a edizione dei Campionati Europei in Italia, a Genova.
Il 26 e 27 Maggio 2007 l’AIJJ, ospita nuovamente i Campionati Europei di Ju Jitsu in Italia a Torino.
Oltre a questi importanti eventi sopraccitati, ogni anno l’AIJJ oltre a svolgere la sua attività Nazionale con Campionati, Trofei, Stages tecnici, Master formativi, Corsi per Ufficiali di Gara etc, partecipa all’attività Internazionale promossa dalla Federazione Internazionale ed Europea come Campionati del Mondo. Campionati Europei, Trofei Challenge Cup, Stages di varia natura.
Le origini del Ju-jitsu restano ancora oggi un’affascinante mistero non del tutto risolto. Infatti definire luoghi e periodi precisi per collocare storicamente il ju-jitsu non è possibile, in quanto esiste una carenza di documenti che possano testimoniare con certezza nascita ed evoluzione di questa disciplina. E’ una caratteristica di tutte le arti marziali essere avvolte nel mistero poiché i Maestri delle antiche scuole custodivano gelosamente il “proprio sapere” e lo rivelavano, ai pochi prediletti allievi, solo verbalmente. Nonostante tutto, le poche fonti in nostro possesso, abbastanza attendibili, collocano le origini del Ju-Jitsu intorno al XVI secolo. Nel Giappone si sviluppò intorno al XIX secolo e si può affermare, a ragione, di essere stato il progenitore di alcune arti marziali tra le quali il Judo. Letteralmente il significato di questa disciplina è “Arte della cedevolezza” ed ha come scopo principale quello di sfruttare tutte le potenzialità del corpo e la forza dell’avversario per usarla a proprio vantaggio. Il Ju-Jitsu insegna ad avere più controllo sulle nostra mente attraverso il movimento e la gestualità. Nei poli opposti della medicina orientale yin e yang (alto-basso, dentro-fuori, io-altro, mente-corpo) sta la ricchezza formativa del Ju-Jitsu. Controllare l’energia che è in ognuno di noi (ki) e distribuirla uniformemente è il vero scopo di questa disciplina.
II Ju Jitsu è diviso in quattro gruppi di tecniche:
1) ATEMI WAZA: tecniche di percussione, portate con le mani, i piedi, i gomiti o le ginocchia a colpire i punti vitali.
2) KANSETSU WAZA: tecniche di lussazione, torsione o slogatura della struttura articolare degli arti superiori o inferiori.
3) NAGEWAZA: tecniche di proiezione, sbilanciamento o sfalcia-mento dell’avversario portate col fine di far cadere l’avversario a terra.
4) OSAEWAZA: tecniche di immobilizzazione e di controllo del-l’avversario, effettuate sia in piedi che a terra.
Tutte queste tecniche obbediscono al principio di “JU” (elasticità, morbidezza) ossia al principio di “non resistenza”; ciò sta a significare che l’attacco viene generalmente neutralizzato assecondando la forza dell’avversario evitandola mediante una schivata o intercettandola all’origine del movimento. In un secondo momento, concatenato al precedente, l’azione di difesa si tramuta in contrattacco. Gli atemi vengono usati principalmente per indebolire l’avversario, sia tisicamente che psicologicamente, al fine di poter eseguire l’azione che ne consegue (proiezione, immobilizzazione ecc.) con il minimo dispendio di forza fisica. Il termine JU JITSU significa infatti “arte della morbidezza, della cedevolezza”.
Una massima dell’antico Ju Jitsu diceva: “II debole vince”. Ciò sta a significare che in questa disciplina la vittoria è ottenuta non già con la forza fisica, ma con l’astuzia, l’elasticità nei movimenti e la concentrazione inferiore. Possiamo senz’auro affermare che il Ju Jitsu è la vittoria dell’intelligenza sulla brutalità.
così come scritto e tramandato dal Maestro Gino Bianchi
Nel 590 a.c. a Yeddo, residenza degli Shogun (luogotenenti dell’Imperatore) in un salone del castello si riunirono i governatori di 18 province capeggiati da Jikamon Nì Kamu Hikomì per decidere di inibire l’uso delle armi ai guerrieri Samuray o uomini a due spade.
Tale decisione aveva lo scopo di evitare che detti guerrieri continuassero a cimentarsi ad ogni futile motivo in duelli spesso mortali. Ben presto però il rimedio si rivela peggiore del male si torna infatti alla legge dello strapotere fisico secondo la quale il più forte comanda il più debole.
Alcuni guerrieri approfittando della loro vigoria muscolare continuarono a spadroneggiare fino al punto di macchiarsi di orrendi omicidi.
Tajamano Kokajo, feroce e sadico gigante, capitano della Guardia imperiale spinse la sua impudenza oltre ogni limite tentando di usare violenza ad una cara ed innocente fanciulla di dodici anni la quale dopo essere stata imprigionata per vari giorni preferì uccidersi facendosi harakiri, non senza prima aver svelato i suoi propositi mediante uno scritto all’adorato fratello: timido ed esile Samuray. Purtroppo il messaggio giunse troppo tardi ed al Samuray altro non restò che piangere la morte dell’adorata sorella. D’altra parte anche se ne fosse venuto al corrente prima, nulla avrebbe potuto fare al cospetto del truce gigante che, oltre a possedere enorme prestanza fisica e grande coraggio, era anche protetto dall’Imperatore il quale vedeva in lui una specie di simbolo della forza nei confronti dei nemici.
Il Samuray giurò di vendicare l’onta subita, avrebbe potuto ucciderlo a tradimento, ma ciò non era nel suo carattere; voleva ucciderlo, ma lealmente e faccia a faccia come qualunque mortale.
Fisicamente debole rispetto al demoniaco ufficiale dell’Imperatore, il Samuray si torturò le meningi dedicandosi anima e corpo alla ricerca di qualche cosa che potesse invertire il detto secondo il quale “conta solo la forza”.
Un giorno dopo un’abbondante nevicata egli osservò che mentre alcune robuste querce sotto il peso della neve furono stroncate, l’esile salice si era limitato a flettersi consentendo alla bianca coltre di cadere al suolo e ritornando a raddrizzarsi sul suo fusto. Questa constatazione illuminò il Samuray che studiò a fondo l’anatomia del corpo umano provando su se stesso e sui propri fratelli diverse mosse, riuscendo a stabilire che facendo perdere l’equilibrio in differenti maniere e agendo simultaneamente su alcune parti del corpo si poteva mettere fuori combattimento qualsiasi individuo.
Il momento della rivincita per il giovane Samuray era scoccato e l’occasione gli si presentò presto: ricorreva allora il periodo delle grandi cerimonie durante le quali i nobili si dilettavano assistendo a sfide di ogni sorta, dai duelli alla rude lotta giapponese denominata “Sumo” (specie di lotta libera senza esclusione di colpi eseguita con la massima rudezza da individui fortissimi, lotta che registrava alla fine la morte di uno dei contendenti).
Su questi duellanti, i nobili puntavano i loro desideri e scommesse; sulla grande spianata antistante il castello erano già state sistemate le tende di corte con il palco riservato all’Imperatore il quale con la sua magnifica sposa avrebbe, il mattino successivo, dato il via alle tenzoni.
Il popolo affluiva da ogni parte per poter assistere alle cerimonie accampandosi alla meglio in un’indescrivibile confusione. Finalmente giunse l’ora dell’apertura dei giuochi per mano dell’Imperatore che aveva al suo fianco il truce gigante Tajamano Kokajo nella superba divisa di capitano.
Due lottatori entrarono in campo ed al suono del gong iniziarono la tremenda competizione; il popolo non trascurava gli incoraggiamenti aizzando or l’uno or l’altro finchè uno dei due restò disteso a terra privo di vita per i colpi ricevuti.
Il secondo duello era tra due sciabolatori e terminò presto con la vittoria di un appartenente alla Guardia Imperiale; fu in quel momento che Tajamano Kokajo scendendo nell’arena, alzando il pugno urlò ai presenti ed in modo significativo “Ecco come le mie guardie trattano coloro che osano sfidarle” e dicendo ciò posò con forza il piede sulla testa del guerriero appena spirato.
L’eco delle sue parole non si era ancora spento che una voce dolce e calma si levò tra la folla: “Io oso sfidare te, vile e prepotente Kokajo e non al duello con armi, ma in lotta corpo a corpo”.
Tale sfida destò prima stupore ed immediatamente uno scoppio generale di ilarità al quale presero parte tutti, non escluso l’Imperatore. Tajamano Kokajo dopo aver riso sguaiatamente si girò verso il palco Imperiale ed a gran voce disse: “Mio Imperatore, questo verme che ha osato insultare il capitano delle tue guardie deve essere punito”.
La voce era quella del giovane ed esile Samuray Nomino Sukune vestito di un bellissimo kimono bianco colore della purezza cinto alla vita da una sciarpa di colore nero, sciarpa che gli ricordava la defunta sorella, avendogliela lei stessa confezionata.
L’Imperatore alzandosi disse: “Come osi, Nomino Sukune sfidare il simbolo delle mie guardie, il terrore dei nemici della nostra Patria? Per punirti di tanta audacia, ti permetterò di cimentarti contro Tajamano sapendo che ciò segnerà la tua fine; ma se tu riuscirai a salvarti essendo risparmiato dal mio capitano, sarai condannato comunque alla decapitazione per avere osato tanto”.
Il Samuray s’inchinò in segno di assenso e si avviò verso l’arena tra gli sguardi atterriti del popolo che, dopo lo scoppio di ilarità, era preso da un senso di preoccupazione per la vita del giovane e ben voluto Samuray.
Appena i due contendenti furono di fronte, Sukune parlò: “Tajamano Kokajo, le tue malefatte stanno per avere fine, i tuoi soprusi sono terminati, la vita di mia sorella Fior di Loto sta per essere vendicata; io ti ucciderò con queste mani e la tua tanto vantata forza nulla potrà per impedirmelo”. Si udì il colpo del gong, Sukune fece un gentile inchino all’avversario che dal canto suo si limitò a fare un grugnito misto ad un arrogante sorriso di scherno e la singolare tenzone ebbe inizio.
La prima mossa di Tajamano fu quella di cercare di avvinghiare il giovane, ma questi con sorprendente velocità si scartò da un lato provocando l’ira dell’avversario il quale tornò alla carica cercando di colpirlo; ad un dato momento vi riuscì, lo prese per il collo e cominciò la stretta. Un urlo di terrore si levò dal popolo che vedeva la fine del Samuray, ma tosto l’urlo si tramutò in acclamazione quando vide che con un magistrale sbilanciamento il forte Tajamano era precipitato sul terreno.
Verde dalla rabbia con la bava alla bocca il gigante non riusciva a rendersi conto come quell’omino da lui considerato un vermiciattolo, avesse potuto gettarlo a terra mentre stava per essere strangolato. Si rialzò e lanciandosi come un ariete prese Sukune per la vita, lo sollevò sulla sua testa e stava per lanciarlo oltre quando si trovò con il collo imprigionato tra le gambe del Samurai in una forbice perfetta; una stretta alla gola lo fece sedere lentamente a terra dibattendosi, mentre Sukune (che continuava la stretta sempre più forte) rivolgendosi all’Imperatore disse: “Ecco o mio signore la fine del famigerato Tajamano Kokajo; ho mantenuto il giuramento, ho vendicato Fior di Loto distruggendo il truce assassino, senza armi e senza interventi di magia”.
L’Imperatore volle conoscere di persona l’astuto e prode Samuray al quale dette l’incarico di insegnare agli uomini della guardia Imperiale l’arte della difesa personale al fine di renderli praticamente invulnerabili” … L’era del Jiu-Jitsu era così iniziata !!!!!!!
ARMI
Ancora oggi conserviamo queste tradizioni che fanno parte del bagaglio culturale del Jiu-Jitsu e studiamo l’uso delle armi tradizionali giapponesi quali la katana, il bo, il jo, i sai, i tonfa, i kama, il nunchaku,…
Il Jiu Jitsu, infine, comprende un’ampia gamma di kata. La presentazione di un arte marziale è il kata il quale è un insieme di tecniche, nel Jiu Jitsu, il kata può implicare uno o più persone, o può essere fatto con armi quali la katana, i sai, il bo, i tonfa, il jo, i nunchaku…
Il Jiu Jitsu continua ad essere un essere poco conosciuto e come tale affascinante, ma anche sospetto. Continua ad esserlo nonostante la sua diffusione sia ormai più che ragguardevole. E’ convinzione abbastanza diffusa che si tratti essenzialmente di una tecnica di difesa personale e di uno strumento di “autorassicurazione” fisica e psicologica: in definitiva, di un’arma.
Ciò che normalmente non si conosce è che chi possiede quest’arma tende per lo più a non usarla come tale e quanto meglio la conosce, tanto meno si sente portato ad impiegarla. La cosa è logica, come vedremo subito, e dipende dal fatto che se è vero che il Jiu Jitsu è un efficacissimo mezzo difensivo e offensivo, a volte mortale, è altrettanto vero che non è solo questo: il Jiu Jitsu è anche un’arma, ma il suo SPIRITO va ben oltre un simile aspetto superficiale, grossolano, in una parola, occidentale.
Moltissimi sono convinti che il Jiu Jitsu sia uno sport. E’ vero lo è. Ci sono le gare e i campionanti a livello locale, regionale, nazionale ed internazionale; ci sono coppe, federazioni, associazioni, medaglie, diplomi, …; ci sono gli allenamenti, la ginnastica preparatoria,… Come si spiega allora che esistano esperti di considerevole livello (forse i migliori) che non hanno mai combattuto in gara, o che comunque non hanno mai vinto un incontro? Il fatto è che il Ju Jitsu è ANCHE uno sport, ma non solo questo.
C’è infine chi guarda al Ju Jitsu come ad un’ARTE. E’ corretto, ad un determinato livello il Jutsuka può davvero creare, mediante l’impiego del proprio corpo, qualcosa di estremamente estetico e piacevole. In un certo senso si tratta di un autentico linguaggio, paragonabile a quello della danza, o a quello figurativo, o persino a quello musicale e letterario. Come l’arte, il Jiu Jitsu richiede fantasia, creatività, sensibilità, personalità. Sicuramente il Jiu Jitsu è anche un’Arte.
Ma è molto di più di tutto questo. Il Jiu Jitsu è una VIA. Parola che non si presta ad un agevole interpretazione nella nostra chiave culturale di lettura.
Forse si potrebbe dire che è un modo di essere. Non ci si può avvicinare allo spirito del Jiu Jitsu se non si vive in una certa maniera, interiormente ed esteriormente. E, viceversa, chi pratica il Jiu Jitsu nel giusto spirito finisce più o meno consapevolmente col cambiare la propria vita, anzi il proprio stile di vita. Voglio dire, sia pure in termini molto generici e approssimativi, che il Ju Jitsu restituisce l’uomo a se stesso, liberandolo da quelle scorie che una società alienante ha depositato su di lui.
La realtà di questo fenomeno è facilmente verificabile per chi, come me, fruisce di un’esperienza derivante dal continuo contatto con i bambini. Il bambino, specie quello piccolo, si comporta diversamente da noi: è più vero, non si nasconde dietro alcuna maschera, affronta con coraggio e fermezza i problemi della sua esistenza, va diritto al suo scopo, si nutre dei contenuti essenziali della vita e anche sul piano puramente fisico egli mostra delle impostazioni e degli atteggiamenti che sono quelli più adatti all’impiego migliore del suo corpo. In seguito, da adulto, dovrà faticare molto per riconquistare quella posizione e quella dinamica del suo organismo che nei primi mesi di vita gli erano spontanee.
Dire che “il Jiu Jitsu restituisce l’uomo a se stesso” significa dire che la pratica di quest’arte impone il recupero di certe qualità umane che si sono perdute negli stravolgimenti di una società disumana. L’umiltà, ad esempio. Occorre accostarsi al Jiu Jitsu spogli di ogni presunzione, liberi da ogni sovrastruttura superflua, disposti a essere semplicemente quello che si è, aperti ad un’esperienza del tutto nuova, pronti ad apprendere qualcosa che forse, sulle prime, può sembrare incomprensibile. Sul tatami i professori, i commendatori, i dirigenti,i capi, non esistono più. Ci sono soltanto uomini e donne uniti da un comune sforzo: lo sforzo per diventare migliori.
E poi la sincerità. Non serve fingere, non serve voler sembrare più bravi, non serve comportarsi in modo da meritare elogi. Bisogna fare, e basta. Fare quello che si può, con tutte le proprie risorse. Bisogna prima di tutto essere sinceri con se stessi, saper guardare dentro di sé, sapersi conoscere. Non è facile, naturalmente, ma questa è la via.
Si può riuscire sole se si riesce a riconquistare un’altra connotazione fondamentale dell’uomo: l’AMORE. L’amore per gli altri uomini in primo luogo, e perciò il rifiuto qualsiasi rivalità, di ogni rancore, del sospetto, della discriminazione, del disprezzo, dell’antipatia, dell’antagonismo, dell’invidia, dell’ira. Il dojo è il luogo della serenità, dell’amicizia e della mutua prosperità. Inoltre ci vuole l’amore per l’arte. Non si pratica il Jiu Jitsu per essere più forti, per ambizione, per lucro e/o per ragioni di prestigio. Lo si pratica perché lo si ama. Se non lo si a ama, con umiltà e sincerità, si potrà forse anche ottenere una buona tecnica, ma non un buon Jiu Jitsu.
Infine è necessaria la fiducia: in se stessi, nel prossimo, e ovviamente nel MAESTRO. Il Ju Jitsu non si impara sui libri. Solo il maestro può indicare la via e il modo migliore di percorrerla. Non chi si fa chiamare maestro, ma chi lo è. E, se lo è, gli si deve dare tutta la fiducia. Il dubbio nei confronti del maestro, toglie ogni validità al rapporto con lui. Fare Jiu Jitsu vuol dire anche abbandonarsi, senza riserve o secondi fini. Non si chiede né si vuole un rapporto di sudditanza o di sottomissione, il maestro non è un’autorità istituzionale, non è un colonnello, né un duce, è un uomo che merita fiducia e al quale si deve dare fiducia. Se non la merita non è un Maestro.
Per la nostra mentalità mercantile il Jiu Jitsu è senza dubbio un fenomeno sconcertante: la sua pratica riporta in primo piano certe qualità umane che dal nostro costume sono state accantonate, o addirittura cancellate, e ne respinge altre che vanno per la maggiore, come la propensione al successo, al potere, all’avidità, alla sopraffazione, allo sfruttamento. E’ una via che non conduce verso gli obiettivi celebrati dalla cultura dominante, ma “solo” verso un miglioramento dell’uomo e della condizione umana. E’ un’educazione all’amore e alla libertà.
Si ritiene che il buddismo zen e le arti marziali abbiano avuto un fondatore comune, risultano, infatti, strettamente connesse la loro filosofia e la loro storia.
Si pensi che in un bassorilievo babilonese risalente a circa 5000 anni fa sono raffigurate situazioni di lotta a mani nude che ricordano molto le arti marziali asiatiche…anche da ciò si è da sempre ritenuto che la culla delle arti marziali da combattimento possa essere stata la Mesopotamia da dove è stato influenzato dapprima l’Oriente e, molti secoli dopo, l’Occidente: la lotta e il pugilato (Pancrazio) dei greci e dei romani avevano qualche affinità con i loro corrispettivi orientali.
Un elemento fondamentale delle tecniche di combattimento orientali deriva dalla tradizione religiosa e medica,l’uso calcolato della respirazione per acquistare forza, calma, velocità e scioltezza.
In molte scuole (RYU) la pratica si svolgeva in assoluta segretezza e la stessa esistenza della scuola era spesso tenuta nascosta alle autorità, le tecniche, spesso mortali, e le nozioni venivano trasmesse oralmente ed esclusivamente a coloro che giuravano di mantenere il segreto. Questa tradizione di segretezza rende difficile la ricerca, si ritiene, tuttavia, che le arti marziali, come le intendiamo noi ora, cominciarono a svilupparsi in India e in Cina verso il V secolo a.C.
Nel 350 a.C. un brillante stratega cinese, scrisse L’arte della guerra, che rappresenta ancora oggi uno dei classici per i militari di professione. Tuttavia è probabile che all’evoluzione delle arti marziali abbiano contribuito, oltre a quello militare, anche altri aspetti quali il brigantaggio, che costringeva mercanti viaggiatori ad assoldare guardie del corpo pronte ad affrontare combattimenti che si adattavano perfettamente al praticante di arti marziali.
Il leggendario monaco indiano, Bodhai Darma, considerato il fondatore del buddismo zen (chan in Cina), intorno al 500 d. C. insegnava un approccio nuovo al buddismo con esercizi di respirazione e tecniche di autodifesa. Si pensa che molte scuole di combattimento derivino dai suoi insegnamenti.
Le tecniche marziali praticate in Birmania, Tailandia, Malaysia, Indonesia e Corea, sono tutte affini alla lotta cinese; un discorso a parte, invece, merita il Giappone che, fortemente influenzato dalla cultura cinese, imparò velocemente e soprattutto sviluppò arti proprie. Ora il Giappone è il Paese dell’Asia con più varietà di arti marziali e con il maggior numero di praticanti in rapporto alla popolazione: è, infatti, materia di studio obbligatoria fino alle nostre Scuole Superiori.
In Occidente prima del 1900 ben poco si conosceva delle arti marziali orientali. L’interesse crebbe lentamente fino al 1950, quando i soldati alleati e i marinai, che avevano praticato arti marziali in Giappone ritornarono entusiasti di ciò che avevano imparato ed iniziarono ad insegnarlo in patria: il Maestro Gino Bianchi, in Italia, fondatore del Jiu Jitsu Metodo Bianchi e Bruce Lee, cresciuto nella occidentalizzata Hong Kong del dopoguerra, da madre americana e padre cinese e maturato negli Stati Uniti, fondatore del Jeet Kune do, rappresentano due ottimi esempi in questa direzione.
Ci vorrà, tuttavia, molto tempo prima che nascano Scuole che possano essere definite europee o americane tali da essere anche solo paragonate a quelle orientali.
MUAY THAI
Da www.wmtc.nu. Tradotto da Giuseppe Prandel 2.1.2006
La Muay Thai è la storia della gente tailandese .Quando l’esercito birmano invase e razziò Ayuddhaya, gli archivi di storia tailandese sono stati perse quasi del tutto. Con loro, gran parte della storia antica della Muay Thai. Quello che noi sappiamo, viene dalle scritture dei birmani, cambogiani , dai primi ospiti europei e da fonti delle cronache del regno di Lanna – Chiang Mai .Quello che tutte le fonti concordano , è che la Muay Thai si è sviluppata come metodo di combattimento ravvicinato sui campi di battaglia. Più mortale delle armi che la hanno sostituita. Quanto a , da dove la Muay Thai è venuta, il relativo sviluppo, le fonti non sono chiare e spesso si contraddicono. Ci sono due teorie principali. Una dice che l’arte si è sviluppata con la gente tailandese movendosi giù dalla Cina; affilandosi nella lotta per la terra. L’altra teoria dice che la gente tailandese era già qui e che la Muay Thai si è sviluppata difendono la terra e la gente dalle minacce costanti di invasione. La seconda teoria , sebbene discutibile, ha una protezione accademica considerevole e prova archeologica . La prima è, tuttavia, possibile come l’area aperta ai primi pionieri . Quello che si sa , è che la Muay Thai era una parte essenziale proprio dagli albori della cultura Thai. Ed in Tailandia, è stata lo sport dei re.Nei tempi passati, questioni nazionali erano decise da competizioni di Muay Thai.Il primo grande aumento di interesse nella Muay Thai come sport, così come un’abilità nel campo di battaglia, fù sotto il re Naresuan nel 1584, un momento conosciuto come il periodo di Ayuddhaya. Durante questo periodo, ogni soldato addestrato nella Muay Thai poteva usarla, come il re stesso faceva. Lentamente la Muay Thai si spostò via dalla sua radice , il “ Chupasart “ e le nuove tecniche di combattimento furono sviluppate.
Il cambiamento nell’arte fù continuato sotto un altro combattivo Re , Prachao sua – il re Tigre . Amava così tanto la Muay Thai che combatteva spesso in incognito nelle gare dei villaggi , battendo i campioni locali. Durante il regno del Re Tigre la nazione era in pace. Il re, per mantenere l’esercito occupato,gli ordinò di allenarsi nella Muay Thai. L’interesse nello sport era già alto ma ora decollò ancora una volta. La Thai Boxe divenne lo sport favorito e passatempo della gente, dell’esercito e del re. Le fonti storiche indicano che la gente da tutti i livelli sociali si è affollata agli accampamenti di addestramento. Ricco, povero, giovane e vecchio , tutti desiderosi di un po’ di azione . Ogni villaggio organizzò le relative ricompense ed aveva i suoi relativi campioni. Ogni competizione si trasformava in una gara di scommesse così come un lotta di orgoglio locale. La tradizione a scommettente è rimasta con lo sport ed oggi le grandi somme sono puntate sul risultato delle lotte.La Thai Boxe è stata sempre popolare ma come la maggior parte degli sport, ci sono stati periodi in cui era più una moda. Nel regno del re Rama V, molti incontri di Muay Thai erano organizzati dal Royal Command. Questi pugili thai sono stati ricompensati con i titoli militari direttamente dal Re. Oggi i titoli, come Muen Muay Mee Chue da Chaya o Muen Muay Man Mudh da Lopburi sono letteralmente intraducibili : significano qualche cosa di paragonabile al campione di Chaya , o di Lopburi ;questo significava dire qualcosa come campione assoluto , quando erano titoli con ricompense molto alte e titoli rispettati. Il periodo di Rama V era un’altra età dorata per la Muay Thai. Campi di allenamento furono installati; talent scout , all’ordine reale ,reclutava potenziali pugili dalla provincia. Gli organizzatori degli incontri iniziarono a fare i grandi matches che erano combattuti per grandi somme di denaro e onore. Questo eccitò la gente allora tanto come oggi succede nei principali stadi di thai boxe di Bangkok. Gli incontri allora non erano combattuti in un ring come lo conosciamo oggi ; per Muay Thai questo è una recente innovazione. Tutto lo spazio disponibile di giusto formato era usato: di solito un cortile di un villaggio. E’ al tempo del regno di re Rama VI che entrò in uso il ring standard cinto dalle corde ; e il tempo preso dall’orologio. Prima di questo periodo, a prendere il tempo erano delle mezze noci di cocco bucate fatto galleggiare sull’acqua. Quando la parte della noce di cocco si affondava, un tamburo segnalava la fine del round.Muay Thai è sempre stata uno sport per la gente così come un’abilità militare di combattimento. In tutte le sue età dorate, la gente si è addestrata e si è esercitata nello sport sia che erano re o gente comune. Era una parte del programma di studi della scuola fino agli anni 20 in cui è stato ritirato perché è stato ritenuto che il tasso di ferite era troppo alto. La gente tuttavia, continua a studiarla nei gyms e nei clubs proprio come oggi. Per secoli l’esercito ha promosso la Muay Thai. I soldati si addestreranno e useranno le tecniche finché ci sarà un esercito in Tailandia. Per i militari è sempre stata un’abilità di combattimento a corta distanza; l’arte marziale del campo di battaglia. Quando un soldato tailandese combatte , egli usa la Muay Thai. Ma così fa ogni persona, maschio o femmina tailandese. Guardando la thai boxe, imparandola, copiandola ; è una parte dell’infanzia tailandese; e così è sempre stato.La gente ha sempre seguito lo sport della thai boxe ed è stata strumentale nello spostamento di essa dal campo di battaglia verso il ring. Il popolo thai ha avuto una parte nel rende la Muay Thai uno sport quanto la hanno i Re. Uno dei motori principali nella trasformazione dello sport fu’ il Re Tigre, che non influenzò soltanto lo stile di combattimento ma anche l’equipaggiamento.Durante il regno del Re Tigre, le mani e gli avambracci iniziarono ad essere legati con le strisce dei capelli del cavallo. Ciò doveva servire ad un doppio scopo ; protegga il combattente ed infligga più danni sull’avversario. Successivamente, questi sono stati sostituiti dalle corde della canapa o dalle strisce inamidate di cotone. Per i matches particolari di sfida e con l’accordo dei combattenti, il vetro smerigliato è stato mescolato con colla e cosparso sulle strisce. I cambiamenti che lo sport della Muay Thai ha subito prima del 1930 sono stati cambiamenti all’equipaggiamento utilizzato piuttosto che cambiamento radicale. Per esempio, i combattenti tailandesi hanno sempre combattuto con le protezioni all’inguine: ma un calcio o una ginocchiata all’inguine era perfettamente legale fino al 1930. Nei tempi andati, la protezione all’inguine era fatta dalla corteccia di albero o da conchiglie di mare tenute sul posto con una parte di panno legata fra le gambe ed intorno alla vita.La protezione dell’inguine successivamente si è trasformata in una forma di cuscino triangolare, rosso o azzurro, legato intorno alla vita ed attraverso le gambe con una cinghia . Il cuscino poi, dopo che un pugile thai in un viaggio in Malesia vide una “scatola” all’inguine. Egli ritornò con l’idea, che è vicino all’idea originale delle conchiglie di mare e da allora,i combattenti di Muay Thai usarono le conchiglie.II 1930 hanno visto il cambiamento più radicale nello sport. E’ stato allora che fu’ codificato e introdotte le odierne norme e regolazioni. II legare corda agli avambracci e alle mani sono stati abbandonati ed i guanti hanno preso il loro posto.Questa innovazione era inoltre in risposta al successo crescente dei pugili tailandesi nel pugilato internazionale. Con l’introduzione dei guanti, sono venute le categorie di peso basati sulle divisioni internazionali dei pugili. Questi ed altre innovazioni , quale l’introduzione di cinque rounds , hanno alterato sostanzialmente le tecniche di combattimento che i boxers usavano e ha causando la sparizione di alcune di esse. Prima dell’introduzione delle categoria di peso, un combattente poteva e combatteva con chiunque senza riguardo alle differenze del peso e di formato. Tuttavia, l’introduzione delle categorie di peso ha significato che i combattenti sono stati abbinati più uniformemente ed anziché esserci un solo campione, divenne uno per ogni categoria di peso. La maggior parte dei combattenti tailandesi di Muay Thai appartengono alla categoria più leggera di peso. Il settanta per cento di tutti i combattenti appartengono alle divisioni di peso gallo e mosca. Ci sono combattimenti medio-leggeri e medi ma non si vedono spesso e le categorie più pesanti combattono raramente. L’istituzione degli stadi, anziché rings ed i cortili improvvisati, ha cominciato durante il regno di Rama VII prima della seconda guerra mondiale. Durante la guerra, gradualmente sparirono ma crebbero ancora rapidamente in seguito . La Muay Thai non perse niente del suo fascino. I Thai boxers dalla provincia ancora una volta si dirigevano verso la fama e fortuna a Bangkok. La gloria poteva essere trovata agli stadi come Rajdamnern e Lumpinee. Più successivamente, hanno combattuto alla televisione. Il Canale 7 della Tailandia iniziò a trasmettere i combattimenti a colori 20 anni fa. Oggi tutte e quattro le stazioni tailandesi della televisione trasmettono liberamente a milioni di tifosi tailandesi attraverso la Tailandia ,quattro notti alla settimana. L’arte di battaglia si è evoluta in uno sport popolare. Regolato, codificato ed ora con cinque rounds da tre minuti, ciascuno con un periodo minuto di recupero . Quegli anziani oggi che ricordano , che hanno combattuto prima della seconda guerra mondiale, deplorano i cambiamenti della normalizzazione dello sport. I tre minuti a rounds, categorie di peso, dicono, ha cambiato lo sport da come se lo ricordano. “Noi abbiamo dovuto combattere contro tutti” ,uno ricorda. “Ho dovuto conoscere tutti i trucchi del mestiere. Abbiamo usato i colpi e le tecniche che questi combattenti neppure sono state insegnate. Noi non avevamo tutti questi riposi(fra rounds n.d.t.) e invece combattevamo finché uno di noi è cadeva.” Essi hanno anche ragione. La Muay Thai è cambiata attraverso gli anni. Cambiando ed evolvendosi da una tecnica di uccisione al suolo di un vicino campo di battaglia basato su tecniche tradizionali , passando da generazione a generazione fino al tempo presente. Ma malgrado i cambiamenti della storia, la Muay Thai non ha perso il suo esotico fascino e persino mistico. Muay Thai è ancora l’arte di combattimento da battere. Arte di combattimento che sconfigge tutte le sfide del Kung Fu, karate, da Taekwando e dalle ultime mode della kickboxing. Essi sono tutti venuti in Tailandia, non solo una volta ma molte volte e da molti posti per esaminarsi. La Muay Thai non ha perso niente del suo fascino in Tailandia.La trasmissione dei combattimenti di thai boxe sono stimati tra i programmi più popolari del regno. Nelle province, i villaggi si raggruppano intorno a tutte le TV disponibili per guardare. Nella città, la gente sparisce dalle vie mentre la Tailandia sta guardando incontri di Thai Boxe. La thai boxe è anche diventata sempre più popolare fuori della Tailandia. Ha i relativi entusiasti e praticanti nelle Americhe, Australia, Giappone, Europa, così come in molti altri paesi intorno al mondo. L’illustrazione storica della Muay Thai continuerà mentre riceve i più grandi riconoscimenti e guadagna in popolarità internazionale.
Caratteristiche di quest’arte marziale sono i micidiali colpi inferti con tibie (che anni di pratica condizionano fino a renderle durissime), gomiti e ginocchia. La Muay Thai in inglese è nota anche come “The science of the eight limbs” perché impiega otto punti del corpo per colpire: mani, tibie/piedi, gomiti, ginocchia.
Del tutto particolare è il condizionamento da applicare alle parti impiegate per colpire: un processo lungo e piuttosto doloroso per i principianti, che comporta il colpire con frequenza costante sacchi di allenamento di durezza via via crescente. I thailandesi usano addirittura certi tipi di alberi locali dotati di tronco molto flessibile e corteccia liscia, ma sembrano essere favoriti da una struttura fisica di partenza diversa rispetto a quella tipica degli occidentali.
I professionisti Thai, spesso figli di famiglie poverissime, iniziano la pratica dell’arte giovanissimi, facendo i loro primi incontri da bambini, intorno ai 9 anni, per essere considerati atleti pienamente maturi già sui 20. La Muay Thai é per i meno abbienti una via di realizzazione personale e professionale. La preparazione fisica è tra le più rigorose e sfiancanti di ogni sport: i professionisti osservano una rigorosa disciplina allenandosi due-tre ore due volte al giorno per cinque-sei giorni la settimana, correndo o nuotando per chilometri, saltando la corda, eseguendo flessioni su braccia e gambe, trazioni alla sbarra, esercizi per gli addominali e i muscoli del collo (importanti nel chap ko o clinch, un’altra particolarità della Muay Thai, una fase di lotta in piedi per sbilanciare l’avversario o entrare nella sua guardia) e cimentandosi in round dopo round di affinamento della tecnica ai pao o colpitori, il tutto sotto l’occhio attento di esperti maestri ex combattenti, i kru o ajarn. Oltre, naturalmente, allo sparring, condotto con maggiore o minore intensità a seconda del livello raggiunto, della preparazione e della condizione.